Se pensiamo a qualcosa che possa essere diventato il minimo comun denominatore di molti aspetti della nostra cultura, la prima parola che ci può venire in mente è indeterminatezza. La cultura occidentale, da un po’ di decenni, ha abbandonato le descrizioni nette e rassicuranti delle certezze del passato per spingere la condizione umana nel territorio inesplorato del dubbio e dell’ignoto.
Ogni teoria, ogni costrutto logico sui rapporti che rivelano l’onda su cui scorre la vita del mondo, si vede a descrivere un insieme sempre meno ampio dell’immensa varietà dell’universo e delle circostanze che viviamo. Sulla critica, sul dubbio, su presupposti che veniamo spinti ad indagare e adattare al nostro pensiero, mutevoli rispetto al cambiamento delle circostanze, sono fondati oggigiorno sia la visione del nostro mondo che quella di noi stessi; le singole persone, sempre più spesso, sono portate dalla cultura di massa ad abbandonare gli esempi dei genitori o del mondo che li ha cresciuti per fare dell’idea che le loro esperienze e la loro personale ricerca hanno portato loro il fulcro della loro personalità e della loro condotta.
Molti si avvicinano così ad un certo tipo di individualismo per ottenere una risposta che comunque non riesce a soddisfarli. Per questo motivo, la pratica dello Zen può essere decisiva per scoprire noi stessi anche considerando la cultura nella quale ci formiamo come persone. Lo Zen non dà risposte alla propria sofferenza e ai propri dubbi, e non ci fa partire da una serie di certezze per introdurci ad un percorso di maturazione. Al contrario, ci immerge nel silenzio delle sedute di zazen e ci pone davanti i dubbi dei koan per mettere in discussione ogni aspetto della nostra vita e ogni immagine su cui possiamo costruire un idea rigida di noi stessi. Perché è quando ogni concettualizzazione viene abbandonata che riusciamo a scoprire quella dimensione presente da cui deriva la sicurezza per vivere lietamente una realtà di continui mutamenti.